Quando il pregiudizio costa talento

Donna con piercing al naso in contesto industriale che dà indicazioni a colleghi, con scritta centrale “L’energia viene anche dalle persone” e watermark www.litti.it

Negli ultimi tempi mi è capitato di leggere diversi articoli sull’argomento, soprattutto da parte di recruiters su varie piattaforme. Poiché sul mio blog tratto spesso temi legati all’industria oltre che all’energia, ho riflettuto su come l’energia possa essere vista anche in senso filosofico: la competenza, la motivazione e il potenziale delle persone sono a tutti gli effetti una forma di energia che un’organizzazione può alimentare… oppure disperdere.
Nasce così questo articolo dopo varie letture, parla di una dinamica che, secondo ricerche e osservazioni, potrebbe portare alla perdita di talenti preziosi.

Molte aziende si presenterebbero come luoghi di meritocrazia. Policy chiare, regolamenti trasparenti, processi HR strutturati e strumenti progettati per ridurre i bias.
Eppure, in diversi contesti, il giudizio sulle persone potrebbe non derivare unicamente da fatti verificabili, ma anche da percezioni, ricordi e narrazioni tramandate nel tempo che portano a non premiare la risorsa e conseguentemente non avere risultati. Questo è scaturito dalla mia ricerca:

Pregiudizi visibili

Alcune ricerche suggerirebbero che dettagli visivi possano ancora influenzare valutazioni e selezioni, anche in contesti strutturati.

  • In un esperimento nel settore bancario tedesco, due CV identici, differenziati solo da una foto con tatuaggio visibile, avrebbero avuto una probabilità di essere richiamati inferiore di oltre 13 punti percentuali (circa −54% in termini relativi) nella versione con tatuaggio (CERGE-EI Working Paper)
  • Un sondaggio slovacco del 2024 su oltre 270 intervistati, avrebbe rilevato che tatuaggi e piercing visibili venivano talvolta associati a minore affidabilità e stabilità emotiva (ResearchGate – Karácsony & Valkó, 2024)
  • Alcuni studi riporterebbero che uomini con orecchini o look non convenzionale, potrebbero ricevere valutazioni meno favorevoli in settori tradizionali, soprattutto in ruoli di rappresentanza (https://pmc.ncbi.nlm.nih.gov/articles/PMC11504073/Italia, 2021).

Il punto non sarebbe il tatuaggio o l’orecchino in sé ma il significato che altri potrebbero attribuirgli, trasformandolo in una storia che precede la persona.

Pregiudizi invisibili

Qualche episodio, divergenza, opinione espressa con decisione, una scelta controcorrente, potrebbe diventare etichetta: “polemico”, “non collaborativo”, “difficile” etc.
Questa etichetta, in alcuni casi, verrebbe trasmessa di manager in manager, di HR in HR, fino a diventare la “versione ufficiale” di un profilo.

Come i bias agiscono

La psicologia organizzativa offrirebbe concetti utili per comprenderlo:

  • Halo / Horn effect: un tratto positivo o negativo si estenderebbe al resto.
    Esempio: un buon inglese parlato farebbe sembrare bravo in tutto; un errore, scarso in tutto.
  • Bias di conferma: si cercherebbero solo prove a sostegno di ciò che si crede.
    Esempio: se pensato disordinato, si noterebbe la scrivania in disordine ma non le consegne puntuali.
  • Effetto ancoraggio: il primo giudizio influenzerebbe i successivi.
    Esempio: partendo da un voto medio, anche migliorando si resterebbe in quella fascia.
  • Labeling theory: l’etichetta influenzerebbe la percezione esterna e interna.
    Esempio: definito “polemico”, si verrebbe esclusi e ci si autocensurerebbe.

Quando il voto si abbassa

Un aspetto meno discusso, sarebbe la tendenza di alcuni valutatori a ridurre una valutazione positiva per non apparire “troppo favorevoli” verso un collaboratore già visto con “sospetto” dall’organizzazione per cui si lavora.
Non si tratterebbe solo di obiettività, ma anche di allineamento percepito, evitare di sembrare “vicini” a chi porta un’etichetta “rischiosa”.

  • Questo meccanismo potrebbe essere collegato al leniency bias e al central tendency bias nelle performance review: la paura di apparire troppo indulgenti o in disaccordo con la linea “non scritta” porterebbe a posizionarsi su punteggi medi (AIHR, 2023).
  • Studi su accountability e conformità indicherebbero che i manager potrebbero adattare il proprio giudizio per “restare nel gruppo” ed evitare di discostarsi dalla media delle valutazioni (ResearchGate).

Rosso Malpelo in azienda

Come il protagonista di Verga, giudicato dal colore dei capelli, anche in azienda una persona potrebbe essere osservata attraverso il filtro di una narrazione preesistente. Ogni gesto, positivo o negativo, rischierebbe di essere interpretato in funzione di quell’immagine. (Consiglio la lettura della novella)
E quando persino un giudizio positivo venisse limato per non discostarsi dal coro, si alimenterebbe un circolo che confermerebbe e rafforzerebbe il pregiudizio.

Il costo per l’azienda

Se le decisioni di assunzione, promozione o valutazione si basassero più sulla narrazione che sulla verifica diretta, il rischio sarebbe una perdita silenziosa di competenze.

Studi indicano che ciò potrebbe comportare:

  • Riduzione dell’innovazione: chi non si sentisse valorizzato tenderebbe a proporre meno idee (Harvard Business Review, 2019).
  • Aumento del turnover: professionisti capaci potrebbero cercare contesti più meritocratici (SHRM, 2020).
  • Costi di sostituzione significativi, in alcuni casi stimati fino al 200% dello stipendio annuale (Gallup, 2016).

Policy e realtà

Anche in aziende con regole anti-discriminazione rigorose, il “filtro umano” resterebbe. E finché i bias, consci o inconsci, non venissero affrontati, il rischio di perdere talenti validi per motivi estranei alla performance rimarrebbe concreto.

Guardare oltre

Distinguere tra la persona e la sua “storia” interna, non sarebbe soltanto una questione etica, potrebbe rappresentare una strategia di vantaggio competitivo.
Significherebbe conservare competenze preziose, valorizzare la diversità di approccio e favorire un ambiente dove il giudizio riflette il lavoro, non la narrazione o un dress code fantasma. L.L.

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